Le parole sono importanti, perché danno valore alle cose. Spesso e volentieri le parole danno un valore anche maggiore di quanto quelle cose dovrebbero meritare.
Ed ecco che il semplice "autoscatto", pratica diffusa sin da quando sono in commercio le macchine fotografiche di piccola dimensione, una pratica che nessuno ha mai idolatrato o di cui si è mai vantato (perchè poi avrebbero dovuto?) con la diffusione degli smartphone cambia il suo nome, e diventa "selfie".
Da "autoscatto", che lo si può anche interpretare come lo sfigato che si fa la foto da solo perché è uno sfigato, si arriva al "selfie", a cui sono state dedicate addirittura riviste, per cui la gente addirittura ci è morta, volendosi fare un selfie in cima ad un burrone.
Adesso chi si fa i selfie pare sia un figo, "guarda che selfie mi sono fatto", gente che va in un posto solo per farsi dei selfie, che, almeno concettualmente, è molto simile a farsi una sega fantasticando sul proprio ego da dover necessariamente sputtanare poi su Facebook.
Non si va più nei bei posti per godere del panorama o delle sensazioni, si va nei bei posti per farsi un selfie e testimoniare ad altri sfigati che siamo stati in quei posti, per poi andarsene da lì senza troppi rimpianti.
Da qualche parte avevo letto che la memoria visiva dell'essere umano, da quando è iniziata l'era degli smartphone, stia sensibilmente calando: la possibilità di poter fotografare tutto ed in ogni momento, ha innescato nel cervello un meccanismo preciso, quello di non prestare molta attenzione a quello che si vede in quanto lo si ha già fotografato, e ne si può godere in un secondo momento, seduti comodamente a casa propria.
Questo è solo un aspetto, e neanche tanto importante, della deriva egocentrica che l'umanità sta vivendo grazie ai social, la più tremenda evoluzione dei "15 minuti di celebrità" teorizzata da Andy Warhol.
Il concetto è semplice: fateve 'na vita. Perché a nessuno frega niente della vostra vita reale, figurarsi della vostra vita immaginaria, che vi state costruendo, selfie dopo selfie.
Ed ecco che il semplice "autoscatto", pratica diffusa sin da quando sono in commercio le macchine fotografiche di piccola dimensione, una pratica che nessuno ha mai idolatrato o di cui si è mai vantato (perchè poi avrebbero dovuto?) con la diffusione degli smartphone cambia il suo nome, e diventa "selfie".
Da "autoscatto", che lo si può anche interpretare come lo sfigato che si fa la foto da solo perché è uno sfigato, si arriva al "selfie", a cui sono state dedicate addirittura riviste, per cui la gente addirittura ci è morta, volendosi fare un selfie in cima ad un burrone.
Adesso chi si fa i selfie pare sia un figo, "guarda che selfie mi sono fatto", gente che va in un posto solo per farsi dei selfie, che, almeno concettualmente, è molto simile a farsi una sega fantasticando sul proprio ego da dover necessariamente sputtanare poi su Facebook.
Non si va più nei bei posti per godere del panorama o delle sensazioni, si va nei bei posti per farsi un selfie e testimoniare ad altri sfigati che siamo stati in quei posti, per poi andarsene da lì senza troppi rimpianti.
Da qualche parte avevo letto che la memoria visiva dell'essere umano, da quando è iniziata l'era degli smartphone, stia sensibilmente calando: la possibilità di poter fotografare tutto ed in ogni momento, ha innescato nel cervello un meccanismo preciso, quello di non prestare molta attenzione a quello che si vede in quanto lo si ha già fotografato, e ne si può godere in un secondo momento, seduti comodamente a casa propria.
Questo è solo un aspetto, e neanche tanto importante, della deriva egocentrica che l'umanità sta vivendo grazie ai social, la più tremenda evoluzione dei "15 minuti di celebrità" teorizzata da Andy Warhol.
Il concetto è semplice: fateve 'na vita. Perché a nessuno frega niente della vostra vita reale, figurarsi della vostra vita immaginaria, che vi state costruendo, selfie dopo selfie.
PS: in foto, un coglione qualsiasi che si fa un selfie dopo un disastro aereo.